Dettagli Recensione
Fragilità, professionalità, solidarietà
L’ospedale appare a diversi chilometri di distanza, imponente, alto, dalla lunga forma ellittica.
Ci avviciniamo piano con la macchina di mia figlia: il traffico è intenso.
Riusciamo a parcheggiare e subito mi lascio inghiottire da quella costruzione.
Sulle spalle il giubbotto, in mano un trolley, non grande, con all’interno gli oggetti per l’igiene personale e la biancheria intima: poca roba, tanto ci dovrò stare solo tre o quattro giorni. Questo mi hanno assicurato medici e chirurghi.
L’intervento che devo subire per loro ormai è di routine: asportare un nodulo di dimensioni ridotte che si e’ formato sul lobo inferiore del polmone sinistro e pulire la parte circostante. Non più di tre ore dalla preparazione fino al risveglio post operatorio, mi hanno garantito.
Il giorno dopo, 21 dicembre 2022, come è stato programmato, con la lettiga vengo portato nel blocco operatorio.
Ricordo il correre ritmico e veloce delle plafoniere sul soffitto, una breve sosta in un ampio salone brulicante di divise verdi e poco dopo -già, poco dopo, ma sono passate quattro ore- la stessa corsa in senso contrario.
Rientro in camera; persone pazienti e con mani delicate mi adagiano sul letto, mi mettono accanto un parallelepipedo attaccato a due tubi di plastica e vanno via.
La notte trascorre serena, a parte qualche dolorino, sopportabile, per la verità, della parte del petto che è stata incisa.
Il giorno successivo una infermiera mi aiuta ad alzarmi, mi mette nelle mani i manici di una carrozzina, sulla quale ha appoggiato il
parallelepipedo del drenaggio e mi invita a camminare nel corridoio.
La faccio volentieri.
Il corridoio è lungo: duecento dei miei passi da una parte all’altra, quindi cento metri. Lo percorro nei due sensi, con facilità, sedici volte; poi, quando il fiato comincia a farsi un po’ pesante, rientro in camera.
Avevano ragione i medici - mi dico- è più semplice di quanto io potessi immaginare. Tra massimo due giorni sarò fuori e potrò trascorrere il Natale con le mie figlie e la mia nipotina.
Il giorno successivo scendo di tre piani per la radiografia di routine. Chiedo di percorrere i corridoi a piedi, con accanto un OSS. Me lo concedono. Sto bene.
Pochi minuti e sono fuori dalla sala raggi.
Sto per ritornare con l’OSS di turno quando mi sento improvvisamente il fiato corto, respiro a fatica.
Chiedo di essere immediatamente riaccompagnato in camera. Una degente mi cede la carrozzina e vengo di corsa riportato su.
Nel corridoio del reparto si muovono figure con divise verdi e camici bianchi, bluse amaranto e blu, capelli lunghi neri e rossicci.
Questo di presenta ai miei occhi.
Arrivo nella mia stanza, vengo adagiato sul letto, liberato di parte del pigiama mentre arrivano tre dottoresse e una, due, quattro infermiere con alberi metallici ai quali appendono bottiglie di vetro, bottiglioni di plastica, posizionano il monitor, infilano nelle mie braccia immobili aghi e aghetti, mi sistemano una maschera di ossigeno, mi fasciano con il bracciale pressorio.
Io guardo, con occhi appannati come coperti dalla cataratta, mentre loro fanno tutto con garbo, con gentilezza, con professionalità, ognuno con l’idea chiara di quello che deve fare.
“Forza amore” “su gioia”, “avanti tesoro”. Saranno termini che fanno parte del loro intercalare, ma quanto sono serviti in quelli e nei momenti successivi nei quali si è rivelata tutta la mia fragilità, che è la fragilità di ogni uomo difronte alla malattia!
“Non mollare Costantino”.
Vorrei piangere, ma non ci riesco.
No, non mollo, non posso, non devo!
“Febbre alta, creatinina alle stelle, saturazione al minimo, fibrillazione, respirazione corta e affannosa…”Sono queste alcune delle espressioni che arrivano alle mie orecchie, mentre i miei occhi appannati e preoccupati colgono volti seri, ma non agitati.
Le dottoresse impartiscono ordini con calma ma con determinazione.
Antibiotico, antipiretico, anticoagulante…
Piano piano la stanza si svuota, ma di tanto in tanto qualcuno: Lele, Sara, Marina, Fabiola Claudia, Loredana, Luciano, Benedetta, Mimma, Barbara, Andrea (e chi può ricordarli i nomi di tutte queste creature angeliche?) entrano, prendono i parametri, mi lavano, mi puliscono, mi mettono indumenti puliti, cambiano le flebo, spostano l’ossigeno, dipanano i tubi, mi sollevano dalle spalle.
Dopo qualche ora comincio ad avvertire insofferenza alla posizione supina e immobile, sono pieno di dolori, stanco; vorrei alzarmi, quantomeno sedermi per un solo minuto.
I miei angeli me lo impediscono, ma con dolcezza, con amorevolezza.
Ho una grande smania: è quella dei moribondi? Non trovo posizione, non ho pace.
Ho voglia di appoggiare i piedi per terra.
Mi ricordo che al mio paese si dice che se il moribondo ha voglia di mettere i piedi per terra è perché vuole licenziarsi dal mondo; appunto: sta per morire.
Ricordo fu così con mio suocero e con mia madre: morti a distanza di solo qualche ora dopo che, sorretti dai familiari, erano voluti scendere dal letto.
Mi siedo sul bordo ma non scendo: non è il momento di morire. Ho ancora qualcosa da restituire al mondo, alla vita
Il dolore non si attenua.
Tra una stretta di denti, occhi che si chiudono per lungo tempo e che si riaprono per poco, sorrisi e parole dolci dell’infermiere/a o dell’OSS di turno, flebo, pasticche, punture e massaggi, piano piano mi riprendo.
La sera di Natale rimetto i piedi per terra, e non con l’animo del moribondo, dopo quarantotto ore di tutto quello che solo brevemente e non completamente ho descritto.
E ora sono qua, in buone condizioni, a riflettere sulla fragilità dell’essere umano, sulla mia fragilità, superata grazie alla professionalità, all’unanimità, alla solidarietà di persone che ai miei ringraziamenti rispondono che loro fanno solo il loro dovere.
Ma sanno il valore che ha il dovere quando è coniugato con la gioia e con l’amore, come loro sanno fare?
Costantino Mustari, già dirigente scolastico degente nel reparto di Chirurgia Toracica dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma dal 20 dicembre 2022 al 3 gennaio 2023.
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