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Sfogo di un ammalato di pemfigo
Dopo innumerevoli vicissitudini, che non sto qui a raccontare, sono approdato all’IDI; vengo da lontano, abbastanza lontano da dover accettare le “elemosine” di coloro che mi stanno affettuosamente vicini.
Grazie al dott. Biagio Didona (che amo definire “l’affettuoso papà di tutti gli ammalati di pemfigo”) responsabile dell’ambulatorio malattie rare, c’è la speranza di un ricovero per l’infusione del Rituximab.
Il ricovero c’è stato; altrettanti sacrifici mi è costata la permanenza a Roma; ma l’infusione è stata solo di cortisone e di antistaminico, per tutti i giorni del ricovero.
Cavilli medico-burocratici, a quanto pare! Ma non sto qui a sindacare, questioni di protocollo.
La prossima volta, scrivono nella lettera di dimissione, probabilmente sarà infuso il Rituxmab ed io lo leggo e spero, perché a parlare con un medico del reparto è alquanto difficile.
Non sto a sindacare su nulla, per quanto riguarda il protocollo medico (anche se ci sarebbe tanto da ridire…), ma ho tanto da dire in merito al “protocollo umano”.
“Qui non è più come prima…” – Continuavano a sentenziare con questa litania, recitata fin dal primo giorno di ricovero, i miei compagni di corsia, “pionieri” dell’IDI, ma non ci faccio caso. Saranno – penso – le solite lamentele dei pazienti incontentabili… Poi ho dovuto ricredermi.
Zero rapporti con il paziente.
A cominciare dalla visita “conoscitiva”, necessaria per la compilazione della cartella clinica: nessun conforto, nessuna cordialità, nessuna informazione, nessun dialogo. Occhi languidi e sguardo freddo, apatico e annoiato del medico compilatore. Ti aspetteresti ben altro…
Ed a seguire, caposala incostante e ruvida; alcune infermiere spesso irritate, frettolose, in affanno e caotiche come api stordite. Delicatezza e attenzioni tali da trovarmi ad affrontare, una volta tornato a casa, un'importante flebite. Farmaci erogati nervosamente, senza mai un briciolo di cordialità o un accenno di sorriso, che sarebbe la medicina migliore per noi malati, segnati a vita.
Farà sorridere anche la gestione della mensa: come si può pretendere che un paziente ricoverato per una tale patologia, che l’ha privato per oltre un anno di alimenti solidi e che si è nutrito di soli cibi frullati e semiliquidi, dico come si può pretendere che durante la degenza all’IDI riesca a mangiare le penne, la rosetta o addirittura le pesche-noci?
E, ancora, ecco la visita del primario: dialogano tra di loro, primario, medici e caposala. Da paziente cerco di captare qualcosa, ma no… “lei non deve…”, “le diremo…”, “lei stia lì tranquillo…”. Scusi primario, le posso chiedere…. “Dopo, dopo le visite…”. Mai più visto, il primario!
Pertanto, mi sono messo in testa di cercare, cercare ancora, informarmi, valutare, verificare, constatare e combattere per poter trovare un posto dove posare queste mie spalle martoriate, un posto qual era l’IDI (a quanto mi dicono…), poiché il pensiero di doverci tornare, tormenta le mie già difficili giornate.
Da credente, mi andrebbe di appuntare sul camice di costoro, sicuramente competenti e professionali, ma carenti nel rapporto umano con il paziente, una frase di B. Marshall: “Bisogna ricordarsi che non si può pretendere di svegliarsi un bel giorno in Paradiso senza sapere come ci siamo arrivati”.
Mi chiedo perché manchi così tanto il dialogo medico – paziente. In fondo non sto parlando di un reparto con un elevato numero di posti letto e carente di personale.
Perché manca la comunicazione, la comprensione, l’attenzione, prontamente sostituiti da “un’educata arroganza”?
Perché si disconosce la compassione (intesa nel termine più evangelico, del “patire con…”) da parte di buona parte di medici ed infermieri, che invece preferiscono erigere una comoda barriera tra loro ed il paziente?
Perché il paziente deve vivere i giorni del ricovero nell’ansia di quello che avverrà, nell’attesa di poter dialogare con un medico che non dia tutto per scontato, cullato solo da speranzose illusioni, come quella di sentirsi parte integrante del rapporto medico-paziente, così da potersi distendersi serenamente in quel lettino certo di trovarsi in buone mani, tra persone amiche alle quali ha affidato il proprio futuro di ammalato, con le quali concorderà serenamente i propri follow-up periodici, e grazie alle quali si potrà concedere momenti di serenità tra le mura domestiche ripensando che dovrà far ritorno in ospedale tra coloro che, prima di andar via, l’hanno salutato affettuosamente, chiamandolo pure per nome?
La tua è pura utopia – mi dirà giustamente qualcuno. Dappertutto è così.
Ma io non parlavo di ospedali, – gli ribatterò – vi stavo parlando di malati rari, merce preziosa!
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