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Tragica esperienza ai tempi del Covid
Sono la nipote di una signora deceduta pochi giorni fa nell’Ospedale S.Carlo di Potenza, a causa del virus SARS-CoV-2 contratto all’interno della struttura.
La paziente è stata ricoverata nel reparto di traumatologia il giorno 8 dicembre 2020 a causa della frattura del femore. L’esito del tampone, risultato positivo al momento del ricovero (e che dopo pochi giorni si scopre essere un falso positivo), ritarda la data dell’intervento (in genere da effettuarsi entro le 48- 72 ore), che viene eseguito ben sette giorni dopo.
La mattina del 18 dicembre, a seguito della comunicazione - da parte di una dottoressa del reparto - della negatività al tampone, la paziente sarebbe dovuta essere trasferita in un apposito centro di riabilitazione. Il pomeriggio veniamo ricontattati da un altro medico che smentisce quanto precedentemente comunicato - “….sicuramente vi è stato un errore nella lettura dell’esito dello stesso” - e dispone pertanto il trasferimento della paziente in un’apposita struttura COVID.
Nel periodo di degenza presso il reparto Covid 1/ Pneumologia, la paziente, almeno fino a quando risultava asintomatica e riusciva autonomamente ad usare il cellulare, ci ha informati giornalmente delle condizioni deprecabili in cui versava:
- enormi difficoltà nel consumare i pasti, nello specifico nel deglutire, a causa della forzata posizione supina per via dell’intervento e dei dolori fortissimi alla schiena. La scarsa assistenza da parte del personale infermieristico (ad eccezione di una sola infermiera che in alcuni turni ha avuto l’attenzione di sedersi vicino e aiutarla a mangiare), nonché la formazione di ulcere alla bocca conseguenti alla mancata igiene della protesi dentaria e di quella orale, l’hanno indotta a rifiutare il cibo. Per questo motivo, e con il consenso di un operatore sanitario, abbiamo provveduto ad inviarle un collutorio, una pomata per le labbra e un piccolo oggetto a lei caro (mai applicati e consegnati, come confermato dalla stessa paziente). Nel corso di una conversazione telefonica, avvenuta in pari data, siamo stati peraltro rimproverati da un infermiere per aver fatto giungere nel reparto quanto sopra descritto.
- difficoltà di comunicazione telefonica con la paziente. Nell’ultimo periodo di degenza in questo reparto, sicuramente il più drammatico per lei e per noi parenti, le sue condizioni si sono aggravate giorno dopo giorno, impedendole di usare autonomamente il cellulare. La mancanza di una figura professionale preposta ad aiutare gli anziani a comunicare con i familiari, di opportuni dispositivi tecnologici all’interno del reparto stesso, di soluzioni architettoniche (pareti vetrate) in grado di comunicare con la stanza Covid - come invece suggerito all’interno del rapporto ISS COVID-19 n. 41/2020- ci hanno impedito di stabilire un contatto diretto con la paziente (ad eccezione di due sole volte, dove si è riusciti a conversare telefonicamente grazie alla gentilezza di un operatore).
Il giorno prima del suo trasferimento in rianimazione, un medico di turno, favorevole a far ascoltare telefonicamente la voce di noi familiari alla paziente, in quanto “….supporto fondamentale in questa fase così delicata del suo percorso”, ha incaricato un infermiere di assistere la paziente nella comunicazione prevista per le ore 17.00 (cosa mai avvenuta in quanto “tutti troppo impegnati”). Quel giorno non è stato possibile, sia pur per qualche minuto, avvicinare il telefono all’orecchio della paziente che stava combattendo da sola questa situazione.
Il giorno seguente, 2 gennaio 2021, entra in uno stato di semi coma e con valori pessimi della saturazione, viene trasferita in rianimazione e quindi intubata.
Probabilmente se avesse indossato correttamente la maschera ventilata (che purtroppo tendeva a togliere per il fastidio che le causava) e monitorata costantemente, forse non sarebbe arrivata il giorno seguente in quelle condizioni.
Nel reparto di rianimazione - che ringraziamo per la professionalità, cortesia ma soprattutto per la grande umanità dei medici e del personale infermieristico - dove la paziente è stata seguita e monitorata costantemente, le sue condizioni sono lentamente migliorate tornando ad essere cosciente. A differenza degli altri reparti, ogni giorno siamo stati informati delle sue condizioni, con una comunicazione condotta con sensibilità ed umanità. Dopo un intervento di tracheotomia, necessario per indurla a respirare autonomamente, e non appena le sue condizioni generali si sono stabilizzate (sia pure all’interno di un quadro clinico serio ma non critico), i medici hanno stabilito il trasferimento (22 gennaio) nel reparto Covid 2 di pneumologia per iniziare un percorso di riabilitazione polmonare.
Il pomeriggio dello stesso giorno incorriamo in un ennesimo episodio piuttosto raccapricciante: un medico del reparto Covid 2 di pneumologia, con toni molto accesi, poco gentili, poco professionali e totalmente difformi rispetto a quello che dovrebbe essere una comunicazione condotta con sensibilità ed umanità, ci informa che le condizioni della paziente “non sono critiche, sono più che critiche. Un polmone completamente fuori uso e l’altro attaccato dal Covid …..la paziente si è già fatta il giro di tutti i reparti”(come se le fosse piaciuto trascorrere due mesi infernali sbalzata da una parte all’altra), “……e che per oggi non faremo nulla e neanche sabato e domenica. Lunedì si vedrà che fare”. Il familiare all’ascolto, nonché figlia della paziente, soggetto cardiopatico, è entrata uno stato di forte tensione e, ad una sua richiesta di portare uno spray per piaghe da decubito (in quanto nel precedente reparto di traumatologia le era stato espressamente richiesto) e notizie riguardo gli effetti personali, il medico in questione le ha risposto indispettito “Lei non si deve permettere di dirmi cosa occorre alla paziente, noi sappiamo come curarla”, interrompendo bruscamente la conversazione telefonica.
Sicuramente in tali circostanze, le abilità di comunicazione e la capacità di costruire una relazione di fiducia sono fondamentali, e ancora di più in questo periodo, in considerazione delle difficoltà e dei disagi associati alla pandemia (vedi rapporto ISS COVID-19 n. 41/2020).
Va segnalato che nella situazione attuale, in cui l’isolamento dei pazienti nei reparti non consente in alcun modo il contatto diretto con i familiari e dove le abilità di interazione umana e diretta col paziente sono essenziali, gli operatori sanitari ricoprono un ruolo importante, sostituendosi alle persone più care, specie nel momento della morte.
Concludo dicendo che la mattina successiva a tale episodio (23 gennaio) la paziente è deceduta.
Porto all’attenzione questa spiacevolissima vicenda con l’auspicio che non accadano più simili episodi e che i medici e il personale in questione potranno essere più umani. Sicuramente non è possibile generalizzare, e’ un momento delicatissimo, capisco lo stress a cui tali persone sono sottoposte, ma ciò non giustifica affatto la mancanza di tatto e attenzione che dovrebbero avere.
Inoltre sottolineo l’importanza della disposizione di mezzi tecnologici che gli ospedali dovrebbero avere per stabilire una comunicazione paziente-familiari giornaliera, in quanto spesso è anche la solitudine che contribuisce all’aggravamento della malattia. Molti pazienti, tra cui il caso appena citato di mia nonna, hanno trascorso giorni, i loro ultimi giorni, da soli, isolati, in una stanza di ospedale, senza poter vedere e talora neanche comunicare con i propri familiari. Sebbene sia vero che utilizzando una comunicazione a distanza di questo tipo, le famiglie possono restare con la sensazione di non aver potuto dire addio in una maniera appropriata al loro caro, questo tipo di soluzioni sono comunque infinitamente migliori rispetto a un’atroce situazione di quella che in lingua giapponese viene definita kodokushi, ovvero morte in solitudine.
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Grazie.
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